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  • chiriattigiovanni6

"Squid Game" una serie coreana? Ma non fatemi ridere.



La seria coreana è divenuta fin dal suo rilascio sulla piattaforma Netflix un fenomeno di massa di proporzioni inimmaginabili : parodiato dappertutto, prodotto più visto nella storia dello streaming, i suoi protagonisti sono delle star mondiali con accordi di sponsorizzazione ultra milionari, l’effetto merchandising è tre volte maggiore a quello de ”La Casa de Papel”, ed è addirittura additato come pericolosa immedesimazione e riproposizione nelle scuole. “Squid Game” è diventato cosi cultura pop in meno di due settimane. Ma cos’è davvero la serie Netflix? Da dove nasce il suo reale successo? Iniziamo col dire di cosa tratta. 456 persone comuni e reali, da chi ha debiti di gioco fino al criminale più losco e scavato, vengono reclutati per partecipare a una competizione formata da sei diversi giochi d’infanzia coreana. Tutto contrattualizzato e firmato a dovere anche nella parte dell’eliminazione del giocatore, anche se non viene specificato il significato vero del termine ; siamo dinnanzi ad un gioco che ha come premio una grossa palla sferica che mette in palio un gruzzoletto di miliardi di won che cresce gioco dopo gioco, eliminazione dopo eliminazione, ma con la particolarità che è un gioco mortale, qui si muore sul serio, chi viene eliminato esce di scena a colpi di pallottole. A orchestrare il tutto c’è una misteriosa organizzazione i cui adepti/soldati sono vestiti tutti uguali con delle tute piuttosto vistose e delle maschere che riproducono motivi geometrici dei giochi e con una estetica che molto probabilmente vorrebbe essere una citazione alla “Casa di Carta”. La scrittura dei personaggi e la loro dinamiche ne è la carta vincente ma ne rappresenta anche l’omologazione ad un modello di serial drama fortemente internazionale nella sua parte americana. La serie si muove per gran parte della sua vita narrativa sulla struttura ideologica di “Hunger Games”, stesse regole di sopravvivenza senza giochi ma dove alleanze e strategie di squadre sono bene o male le stesse; Katniss e compagni lottano per sopravvivere contro la dittatura del Presidente Snow, in “Squid Game” Seong Gi-hun e soci sono liberi di scegliere se aderire al gioco o lasciar stare e Capitol City è il sistema capitalistico che ci governa. Il protagonista, Seong, è buffonesco e tragico al contempo, intraprende un personale viaggio dell’eroe che lo porterà pian piano ad eliminare la propria parte giocosa man mano che la crudezza della competizione prenderà sempre più il sopravvento, per essere l’eroe del caso; l’uomo comune che ha superato tutte le prove per fortuna e destino, lo stesso che lo porterà a vincere il gioco e impersonificare la carta anti-sitema del sistema; di fatti nel gioco di metafore che “Squid Game” ci pone, il nostro eroe siamo noi, la parte schiacciata dal dio denaro, l’individuo offuscato dal processo capitalistico nel suo ultimo sussulto di rivendicare la propria moralità, il proprio senso del giusto e di giustizia. Ma non ci sarebbe eroe senza un degno contraltare anti eroico che nella fattispecie è rappresentato da Cho Sang-Woo. Abile stratega, apparente fedele alleato del tontolone Seong prima di rivelare la sue vere intenzioni, inganna sacrificando i suoi compagni per arrivare più in fondo possibile ed ambire a vincere il montepremi finale. Sembra la parte dal cattivo classico ma in realtà è la parte più reale e giusta di tutte; “Squid Game” ci porta nel mondo della sopravvivenza più disperata, quella dove il tempo, le speranze, le gioie, le ansie, sono legate a quanto il giocatore saprà adattarsi, e Sang-Woo non fa altro che vestire i panni del leone con le sembianze dell’agnello. Forse il personaggio con cui ognuno di noi può riconoscersi dopo un primo impatto d’odio. Noi avremmo fatto la stessa cosa, tradire nostra moglie, la nostra ragazza, nostra madre, per la giungla primitiva di “Squid Game”, dove vige l’unica regola che va rispettata , sopravvivere. Kang Sae-byeok è l’elemento Tokyo ma con una mutazione maggiormente identitaria rispetto alla scrittura stereotipata della sua controparte iberica. La Sae-beyok ,cinica agli inizi, si auto isola, ci da l’impressione che la sua vita, a prescindere dal gioco, non conti nulla. Uno degli episodi più belli, toccanti e spietati è l’episodio 6 : ogni giocatore deve andare in coppia sfidandosi al gioco delle biglie, Kang è in coppia con la giocatrice n. 240. Entrambe decidono di passare tutto il tempo a parlare di se stesse, cosa avrebbero dovuto fare una volta fuori con i soldi facendo decidere al caso chi dovesse vivere o morire nei minuti finali del gioco. È lì che il personaggio cambia. Sae-beyok prende consapevolezza della sua situazione, della paura, sa ora cos’è, sa che la sua vita vale qualcosa per il fratellino che cerca disperatamente nel mondo reale; il senso di attaccarsi a qualcuno la porterà a protendere dalla parte di Seong. Ed è proprio nelle dinamiche a “squadre” tra i giocatori che ritroviamo la stessa riproposizione insita dell’ heist movie; ovviamente non c’è nessuna rapina da effettuare, nessuna banca da occupare, ma la logica dell’interazione tra i personaggi è praticamente la stessa. Come i protagonisti dei cult Tarantiniani o la già sopracitata “Casa di Carta” , le malcapitate pedine di “Squid Game” si adattano al nuovo ambiente, cambiano per sopravvivere, ma come sopravvivere a giochi che non si conoscono? Dopo aver sperimentato sulla propria pelle che la carneficina senza metodo porterà solo a non cavare nulla dal buco, scoprono che l’unione fa la forza e la necessaria divisione in squadre. Si crea inizialmente un gruppo di maggioranza, fatto da criminali e psicopatiche che vogliono creare risse notturne per far fuori i più deboli e aumentare il bottino. Questo gruppo viene però messo in crisi da dinamiche interne, rivalità, doppiogiochismo, che esaurisce la fedeltà verso un obbiettivo e il ritorno alla sopravvivenza singola; di questa debolezza sembra approfittarne il gruppo dei buoni anche se dilaniato dal dualismo Seong/ Sang-Woo, tutto però verrà equilibrato dall’episodio dell’ultimo gioco, quello delle lastre di vetro, lo sfaldamento delle squadre per il triangolo che poi diventerà una corsa a due. Un’altra metafora comportamentale della società odierna, la compattezza di come ci relazioniamo nella polarizzazione di un unico centro di interesse per poi sgretolarsi quando riusciamo ad essere più avanti del nostro compagno di squadra, apprendiamo e rubiamo da lui per essere un passo avanti ed eliminarlo. Da ciò arriviamo al tema centrale della serie, quello politico. Viene rappresentata una Corea che è la rappresentazione plastica della nostra società. Sembra di vedere “Parasite” per come tenta in tutti i 9 episodi di inculcarci la lezioncina morale su come le disuguaglianze sociali abbiano ormai separato il mondo in due poli; la lotta di classe tra ricchi e poveri che si mangiano a vicenda viene amplificata dalla sete di denaro ma sostituisce l’invidia sociale con l’intento di non avere la ricchezza dei ricchi ma di arrivare a quella ricchezza come ultima spietata carta da giocare per non morire. Il denaro non viene usato come atto egoistico e d’invidia per chi ha di più ma come mezzo di via d’uscita, di sopravvivenza ad un sistema capitalistico che è aperto ma anche terribilmente chiuso. Ma questo tema abbastanza abusato viene quasi messo in secondo piano da una morale più individuale riguardante il nostro posto all’interno della società e come decidiamo di agire nell’ecosistema mondo. A causa dei problemi economici i nostri protagonisti hanno perso, o almeno sembra così, ogni forma di umanità che la crudezza del gioco porta a svelare. Sono automi legati alle catene di un processo capitalistico che va più veloce di loro, alienati e anestetizzati dai propri debiti e dalla capacità di non riuscire a reagire. Il libero arbitrio dei nostri protagonisti, che ritornano in gioco dopo aver sperimentato le crudeltà della competizione, li espone ad una involuzione antropologica di chi sono costretti a diventare; animali nella giungla votati al cinismo più esasperato, che viaggiano nel degrado umano non solo esteriore dove il sangue sembra la nuova normalità, ma anche interiore in una nuova psiche che li costringe a riformulare un nuovo senso di cosa sia sbagliato e necessario fare. Forse uno dei pochi problemi della narrazione della serie Netflix sta proprio nell’intento moralistico buonista del suo protagonista. Dopo orrori, massacri e carneficine “Squid Game” sconfessa un po’ la scia di sangue che si porta dietro usando il suo protagonista per dirci che alla fine l’individuo deve riuscire a spogliarsi del proprio tratto primitivo riuscendo individualmente a discernere tra male e bene ; è quindi ancora possibile cambiare rotta, recuperando il senso di umanità , di amor per il prossimo, di pietà anche per il nostro peggior nemico che le vicende del dio denaro ci hanno fatto smarrire durante il cammino. Ed è qui che si capisce la semplicistica evoluzione finale del nostro protagonista Seong in linea rispetto a ciò che lo spettatore medio del “drama” odierno vuole vedere: il bonaccione indebitato fino al collo che vive alle spalle della madre che pur nel mondo senza fine del “dangerous game” non riesce mai a perdere la fiducia nel prossimo, nella bontà e nel bene che trionfa sul male. L’opposto di ciò che dovrebbe essere il cinema coreano se togliete l’esaltazione del sadismo e della crudezza scenica che sembra essere solo una questione di forma. “Squid Game” non ha nulla della costruzione Bong Joon-hoiana anche se vorrebbe che noi lo pensassimo, ha tanto invece del prodotto seriale di oggi, la cosiddetta serie evento che ha ormai appiattito e normalizzato ogni forma di cinema anche la più identitaria come quella coreana. La struttura della serie si muove su una divisione, dopo l’introduzione necessaria dei primi episodi in merito ai personaggi principali, equa e ben proporzionata tra dinamiche orizzontali e verticali. I colpi di scena finali ad ogni episodio sono pieni di suspance da cui partirà l’episodio successivo, vi sono narrazioni e storie incentrate su un singolo personaggio per farcelo conoscere, immedesimarci in lui creando una coralità di protagonisti tutti dentro la storia principale facendoci sentire che nessun è escluso. Netflix confeziona un prodotto furbo, astuto, pop e transmediale, d’autore e d’intrattenimento nel contempo. Il politico, la dimensione autoriale viene inglobata in quella commerciale dove l’estetica kitsch, le maschere, i colori flou servano ad intercettare un pubblico giovane che sa riconoscere gli espliciti riferimenti che “Squid Game” fa alle altre serie evento. Una serie americana quindi che di coreano ha solo gli attori.


di Donny Brown


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