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  • chiriattigiovanni6

Attivismo performativo - Quando l'unica cosa per cui lotti sono i likes



La prima volta in cui ho sentito parlare di attivismo performativo è stata nel maggio del 2020: il nome di George Floyd aleggiava sulla rete come un triste presagio, mentre lungo le strade statunitensi prendeva vita, urlando a gran voce, il movimento del Black Lives Matter. I social, dal canto loro, tra una foto ritoccata e mirabolanti consigli su come riscaldare al meglio la pizza precotta, snocciolavano impettiti miriadi di post colorati di nero; un modo come un altro per esprimere cordoglio o per ripulirsi la coscienza? Sarebbe pretenzioso, e assolutamente di cattivo gusto, assumere che tutte le persone presenti sulla mia home di Instagram non fossero a conoscenza della situazione o della condizione a tratti agghiacciante in cui versa la comunità afro-statunitense. Certo è, invece, che il susseguirsi di questi episodi ha dato la possibilità a me e a molti altri di comprendere a pieno cosa sia l’attivismo performativo. Ma partiamo dalle basi: cos’è? E perché se ne sente parlare sempre più spesso? Per attivismo performativo si intende quel tipo che viene praticato principalmente sui social network: fine principalmente a sé stesso e con lo scopo concreto di accaparrarsi più likes possibili, che non ha alcun interesse concreto per la questione.


Insomma, quello che ci capita di scorgere tra i non poi così tanto lungimiranti post di pagine pseudo femministe, più pseudo che femministe. Ed è così che per riuscire ad individuare dei veri alleati, impegnati attivamente in favore della causa, o perlomeno realmente informati su di essa, bisogna obbligatoriamente giocare a campo fiorito: schivando prima un coloratissimo “love is love”, poi un altrettanto spumeggiante “amati così come sei”. Nell’epoca del politicamente corretto è ormai di moda definirsi partigiani di cause che probabilmente neanche sentiamo nostre. E i social, ottimi per veicolare le propria opinione sdentata, sono uno dei mezzi più potenti per indossare vesti che a tratti non ci appartengono. A questo punto è lecito chiedersi: “Cosa posso fare per sfuggire alle grinfie dell’attivismo performativo?”. Bene, eccoti tre consigli che potrebbero tornarti utile per praticare del sostegno valido e concreto:


1) Riconosci il tuo privilegio:

accetta che nella società odierna esistano categorie più svantaggiate di altre, e che magari tu fai parte di quelle con un vantaggio in più. Ricorda: il privilegio sta alla base di ogni discriminazione e i cambiamenti, se avvengono, partono dalle radici;

2) Informati:

prima di aprire bocca riguardo a qualsiasi cosa, studiala. Non basare le tue idee su credenze popolari, conoscenze che hai dalla nascita. Credimi, molto di quello che contavi di conoscere probabilmente è fin troppo approssimativo. Non si è mai troppo acculturati per apprendere dell’altro;

3) Abbandona i tuoi pregiudizi:

se vuoi aiutare delle categorie svantaggiate devi eliminare del tutto qualsiasi superstizione tu abbia nei loro confronti. E no, non è assolutamente vero che non ne hai. Viviamo in una società che fin da bambini ci nutre con pane e diffidenza verso il diverso. I pregiudizi sono prerogativa di tutti, l’intelligenza sta nello sradicarli.


In conclusione, condividere un post sulle categorie discriminate non fa di te un alleato. Per esserlo, per marciare fianco a fianco con coloro a cui la voce è stata tolta, devi essere cosciente di ciò che pubblichi. Devi volerlo fare non perché tutti gli altri lo fanno, ma perché senti di voler cambiare il mondo: anche solo nel tuo piccolo. Essere attivisti, alleati, o come preferisci definirti, implica uno sforzo costante.

Alzati in piedi, alza la voce, sii chi scegli di essere e non cosa gli altri vogliono che tu sia.


di Beatrice Brocca

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